Ai tempi

Il baco da seta che portò Ascoli in Europa

La nascita e sviluppo dell’industria della confezione del seme del baco da seta caratterizzò la vita economica di Ascoli e dell’ascolano fra il 1870 ed il 1950, costituendo un vero e proprio distretto di assoluto rilievo europeo, sia in termini quantitativi, che qualitativi.

di Giuseppe Di Bello

Quali le cause della sua nascita, singolare in un’area non particolarmente sviluppata nel settore della produzione della seta, al contrario di varie zone del Nord Italia? Sinteticamente, si può dire che ad Ascoli fu trovata la più efficace risposta ai problemi posti dalla grave crisi che interessò il settore della bachicoltura e a cascata della sericoltura in tutta Europa a partire dal 1840.

In quell’anno, infatti, si manifestò per la prima volta in un allevamento di bachi in Provenza una terribile malattia, più tardi identificata con il nome di pebrina.

Tale morbo, di natura contagiosa, aveva come conseguenza la progressiva distruzione degli allevamenti e la drastica riduzione delle rese produttive.

Partita dalla Francia, l’epidemia si diffuse dal 1850 anche nel Nord Italia, ponendo a repentaglio la sopravvivenza stessa dell’industria sericola, la maggiore industria di esportazione della penisola. I produttori di bozzoli dell’Italia del Nord cercarono di approvvigionarsi di seme sano in aree non ancora colpite dalla malattia. Una di queste fu l’Ascolano.

Qui, come sappiamo da alcune statistiche (in primis quella redatta dal Governo Pontificio del 1824), esistevano sette filande di seta, di cui sei create in un periodo compreso fra il 1800 ed il 1823, in una fase di forte sviluppo dell’attività sericola, agevolato dalla presenza di un buon mercato di sbocco per le sete prodotte nell’Ascolano costituito dalla fiera di Senigallia; dalla disponibilità di legna per l’attività delle filande e dall’abbondanza di gelsi la cui foglia era materia prima essenziale per l’allevamento dei bachi da seta.

Tra il 1853 ed il 1860, alcuni tra i filandieri ascolani iniziarono a vendere seme ai produttori del Nord, con discreto successo. Nel 1860, tuttavia la pebrina fece la sua comparsa anche nell’Ascolano, ponendo a rischio la sopravvivenza delle sei filande censite dal nuovo governo nazionale nel 1861.

Queste erano gestite da esponenti di famiglie nobiliari o borghesi: Giovanni Tranquilli ed Antonio Silvestri, Giovan Battista Marcatili, Emidio Albanesi, Baldassare Saladini e Francesco Sacconi-Natali.

Dalle filande ascolane, poco prima dell’Unità, cioè nel 1857, uscivano 61 quintali di seta grezza, che prendevano la via dei mercati di Ancona e Milano per raggiungere poi le destinazioni finali di Parigi, Lione e Londra.

Dopo la comparsa della malattia, anche l’attività delle filande ascolane si atrofizzò, al punto che nel 1870 solo due di esse risultavano attive.

Negli anni successivi al 1863, per cercare di trovare una via d’uscita dalla grave situazione, anche i bachicoltori ascolani ricercarono seme sano all’estero, segnatamente in Macedonia, in Grecia, in Medio Oriente ed in Giappone.

Non tutti però si rassegnarono; in particolare, Giovanni Tranquilli si ostinò a trovare una soluzione alternativa per arginare il dilagare della malattia.

Dotato di una cultura scientifica costruita negli anni, grazie alla costante frequentazione dello zio materno, il naturalista Antonio Orsini, ed al conseguimento della laurea in Scienze Naturali presso l’Università di Pisa, Tranquilli si interessò costantemente agli sviluppi della ricerca, creando collegamenti con zoologi e naturalisti delle università italiane.

Ciò gli permise di conoscere in anteprima i risultati degli studi condotti dal grande Louis Pasteur, il quale aveva dettato un metodo per la corretta riproduzione dei bachi: le farfalle femmina che depositavano le uova dovevano essere tenute separate le une dalle altre grazie all’utilizzo di “celle” di garza o di carta; dopo la deposizione delle uova le farfalle andavano esaminate al microscopio per individuare i segni della malattia: se questi esistevano, occorreva distruggere le uova deposte dalle femmine malate, conservando solo quelle generate da femmine sane.

Il sistema suggerito da Pasteur fu chiamato “cellulare”, in contrapposizione all’antico, detto “industriale”.

Giovanni Tranquilli già nel 1869 adottò il nuovo metodo. I risultati, in termini di rese produttive, furono immediati: nel 1871 tornò ad ottenere le stesse rese che si avevano prima della diffusione della malattia.

Oltre a introdurre sistemi innovativi di costruzione della bigattiera, Tranquilli comprese inoltre che il futuro dell’attività bacologica potesse essere assicurato non dalla creazione di grandi strutture, quanto piuttosto dalla diffusione di una miriade di allevamenti sul territorio, di tipo domestico ma ben tenuti, in modo tale che eventuali focolai di infezione potessero essere facilmente isolati.

L’attività di allevamento dei bachi, così concepita, poteva utilmente integrare i guadagni delle famiglie coloniche.

Negli stessi anni, anche il governo nazionale iniziava a prendere provvedimenti per cercare di arginare la crisi sericola, sostenendo in particolare l’attività scientifica di ricerca ed incentivando la diffusione del metodo Pasteur. Nacque così nel 1871 la Regia Stazione Sperimentale di Padova e furono creati 11 Osservatori Bacologici in varie province d’Italia: due erano ubicati nella vallata del Tronto, ad Ascoli e ad Offida.

A dirigere l’Osservatorio ascolano fu chiamato nel 1872 un impiegato comunale: Erasmo Mari.

Questi si impose nel giro di dieci anni come il miglior confezionatore di seme bachi italiano.

Basti dire che in tutti gli Osservatori bacologici dell’Italia centrale, nel biennio 1881-1882, erano state prodotte complessivamente 55.078 once: le 30 mila once prodotte ad Ascoli costituivano dunque più della metà della produzione complessiva.

L’adozione del metodo Pasteur non fu uniforme su tutto il territorio nazionale. I maggiori costi implicati dal sistema cellulare rispetto a quello industriale indussero ancora per molti anni i maggiori bachicoltori italiani a spingersi all’estero per acquistare seme sano. Ciò tuttavia non impediva la recrudescenza della malattia quando le tecniche di allevamento si mantenevano quelle tradizionali.

Per circa quindici anni, in pratica solo ad Ascoli si adottò il sistema a riproduzione cellulare; il che consentì ai bacologi locali di imporsi come i pressoché unici produttori nazionali quando apparve chiaro che la sopravvivenza dell’intero comparto sericolo sarebbe stata resa possibile solo dall’adozione del metodo Pasteur.

Inoltre i bacologi di Ascoli si specializzarono nella selezione e nell’incrocio di varie razze di baco da seta, adatte a vari tipi di clima ed in grado di assicurare rese via via più elevate.

Numerosi esponenti della nobiltà e della borghesia ascolane, sulla scia delle esperienze di Giovanni Tranquilli e di Erasmo Mari, già a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento aprirono ditte nel settore della confezione del seme bachi.

Nel 1870 iniziarono a produrre Ugolino Panzini ed i fratelli Ferri, nel 1871 Filippo Giovannozzi, nel 1873 il marchese Sacconi Natali, nel 1875 i fratelli Palermi ed i fratelli Luciani, nel 1880 Giuseppe Piavi e Giuseppe Galanti, nel 1882 Giovanni Dionisi e la società Ferretti e Manara. Non è possibile rintracciare l’inizio dell’attività della famiglia Cantalamessa, che pure era sicuramente presente nel settore nel 1891.

Una rilevazione statistica del 1892 fornisce anche un’indicazione relativa alle aziende operanti sul baco da seta di maggior importanza che si erano affermate ad Ascoli e nell’Ascolano.

Vengono così elencate le ditte di Giovanni Tranquilli, di Erasmo Mari, degli eredi Ambrosi-Sacconi, di Ugolino Panzini, di Giacomo Rittatore, dei fratelli Luciani, di Luigi Frigerio, di Giuseppe Peslauser, di Giovan Battista Marini, dei fratelli Fornari, di Filippo Giovannozzi e di Giovan Battista Imberti.

Al di fuori del comune di Ascoli, veniva fatta menzione degli stabilimenti di Luigi Mercolini ad Offida e di Luigi Ruggeri e di Giuseppe Ignazio Trevisani a Fermo.

Figurano nomi di ditte i cui proprietari non erano ascolani: Rittatore, Frigerio, Imberti. Erano questi confezionatori di seme bachi del nord Italia che avevano aperto degli stabilimenti bacologici ad Ascoli.

All’inizio del XX secolo, l’Ascolano appariva il distretto di produzione del seme bachi più importante e più florido in Italia.

Nel 1904, operavano in Italia nel settore 148 ditte: fra queste, ben 52 nella sola provincia di Ascoli con una produzione di 450.000 once. Se adottiamo le unità di misura del sistema metrico decimale, ci rendiamo conto che tale cifra è equivalente a più di 12 tonnellate; quantità impressionante, se si tiene conto del fatto che ogni singolo uovo pesa meno di mezzo milligrammo.

L’industria bacologica ascolana aveva raggiunto la sua piena maturità e costituiva forse il pilastro fondante delle attività manifatturiere picene.

Nel 1908, l’importanza strategica di Ascoli nel campo del baco da seta fu riconosciuta dal Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, che decretò l’apertura di una nuova Stazione Bacologica, con competenza territoriale sulle tre province marchigiane di Ancona, Macerata ed Ascoli, sull’Umbria e sull’Italia meridionale.

La sede della nuova Stazione fu collocata ad Ascoli nel 1920 nei locali di villa Panichi.

Nel 1927, le ditte con sede e stabilimento ad Ascoli Piceno ammesse a produrre e vendere seme per il baco da seta erano: Giuseppe e Margherita Bagnara, Pilade Berardi, Filippo Cantalamessa, Pietro Cazzola, Giovanni Dionisi, Giovanni Pomponi e figlio, Giuseppe Felci, Antonio Ferretti, Giuseppe Ferretti e Emma Bianchi Ferretti, Carolina e figli Pietro e Paolino Ferri, Romano e Alessandro Ferri, Filippo Flajani Mazzoni, Giuseppe Galanti, Alfredo Barla, Maria Isopi ved. Giovannozzi, Regina Squarrina vedova Ignazi, Livia Jachini, Fratelli Luciani, Mario e Benito e Washington Mari, Giulio e Giuseppe Marini, Domenico Marson, Oreste Palermi, Giuseppe e Mario Panzini, Giuseppe e Stefano Piavi, Augusto Pignoloni, Pio Tartufoli, Francesco Pomponi, Ines Pozzani Muselli, Giuseppe Rampini, Pio e Giuseppe Sacconi Natali, Gallo Tarlazzi.

A queste si aggiungevano 12 ditte dell’Ascolano.

Alcune tra le maggiori ditte ascolane avevano clienti in vari paesi europei ed extra-europei, giungendo persino a collocare i loro prodotti in un mercato quale quello giapponese.

Ciò era reso possibile dal fatto che erano state selezionate ad Ascoli alcune razze particolarmente pregiate ed apprezzate dai produttori orientali; tra queste è da ricordare il “giallo Ascoli”, ancora oggi prodotto ed utilizzato nell’arcipelago nipponico per ricavare sete destinate anche alla famiglia imperiale.

Su 172 ditte autorizzate ad operare in tutta Italia, 31 avevano sede e stabilimento in città, (in totale 43 nella Provincia) mentre altre 21, pur avendo sede altrove, avevano stabilimenti nella provincia.

Nella territorio Piceno operavano dunque 64 stabilimenti produttivi: più di un terzo di quelli di tutta Italia.

Questi dati fotografavano la situazione esistente prima della grande crisi della bacologia italiana in generale e locale in particolare.

Questa fu innescata da vari fattori, il maggiore dei quali è da individuare nell’avvento delle fibre artificiali, che ridimensionò di molto la domanda di seta.

Non è poi da dimenticare la grande crisi del 1929, che colpì il mercato nordamericano, affermatosi nel primo dopoguerra come il più importante a livello mondiale. Nel 1931, nella provincia di Ascoli risultavano aver chiuso i battenti 14 stabilimenti: fra questi, anche quelli aperti 60 anni prima dai “padri fondatori” Giovanni Tranquilli ed Erasmo Mari.

Più in generale, la contrazione dei livelli produttivi fu drastica e rapidissima; nel 1937, la produzione ascolana si era assestata sulle 40 mila once, contro le 450 mila del 1927.

Da elemento portante dell’economia locale, il baco da seta divenne negli anni per Ascoli sempre più un residuo del passato, un’attività esercitata più per passione e consuetudine che per reale interesse economico.

Negli anni Sessanta, la produzione complessiva ammontava a poco più di 10 mila once, prodotte da pochi residui stabilimenti. L’ultimo tra essi, quello del marchese Piero Sacconi Natali, chiuse nel 1969, sancendo la fine di una storia che ha innervato per molti decenni la vita economica locale.